Cambiare i connotati: la musica come strumento di oppressione
La soleggiata isola greca di Makronissos nasconde una storia oscura. Tra gli anni ’40 e ’50, essa fu sede di campi di detenzione, dove presunti comunisti e soldati di sinistra, e successivamente prigionieri politici inclusi donne e bambini, furono incarcerati e costretti a ripudiare la propria ideologia. «Questi campi furono classificati come esperimento di “rieducazione” e indottrinamento», afferma la responsabile del progetto MUSDEWAR, Anna Papaeti. «Erano un mix di torture sistematiche, lavori forzati, condizioni disumane, e la musica aveva un ruolo centrale in tutto ciò». Passando in rassegna archivi storici e interviste ai sopravvissuti dei campi, Papaeti racconta l’uso della musica come arma sull’isola di Makronissos e il suo ruolo complesso e a volte contraddittorio come strumento di oppressione. «Ciò che traspare dalle testimonianze è che le persone venivano costrette a cantare spesso, perlopiù canzoni militari e di stampo nazionalista identificate con il regime», afferma Papaeti. «Era una cosa umiliante per chi era costretto a cantarle». I prigionieri erano costretti a cantare in ogni momento della giornata, anche mentre trasportavano pietre pesanti da un capo all’altro dell’isola. Nel 1948 venne collegato un trasmettitore agli altoparlanti di tutti i campi, che trasmetteva musica, principalmente di stampo nazionalista, e discorsi. Fu una delle primissime stazioni radio in Grecia. Con il trascorrere del tempo, afferma Papaeti, vennero istituiti cori e bande, che a volte sollevavano i partecipanti dal duro lavoro. I gruppi si esibivano spesso per giornalisti e autorità in visita, e andavano persino in tour. È curioso come alcuni prigionieri ricordino questi gruppi con affetto. «Credo si trattasse di un doppio legame», afferma Papaeti. «Da un lato la testimonianza che il coro rappresentasse per i prigionieri uno strumento di amicizia e di musica, dall’altro il fatto che divenne la voce della propaganda per i loro torturatori». Per Papaeti, questo utilizzo della musica era destinato a ciò che ella definisce recinti sonori: persone costrette ad ascoltare musica incessantemente all’interno di spazi chiusi. Recinti sonori più sofisticati vennero sviluppati in Grecia negli anni ’60 e ’70: una combinazione di nuovi metodi di interrogazione basati sulla deprivazione sensoriale, utilizzati successivamente nella base navale di Guantanamo a Cuba. Il fatto che la musica sia normalmente vista come qualcosa di innocuo, persino di virtuoso, ne fa sottovalutare l’utilizzo a fini oppressivi, afferma Papaeti. Un ex detenuto le ha riferito che ancora oggi il suono di un clarinetto lo fa tremare di paura. «È incredibile come una cosa percepita come benevola possa traumatizzare le persone per decenni, anche all’età di ottant’anni», afferma. Attraverso il suo lavoro sull’isola di Makronissos, Papaeti spera di tracciare la genealogia della musica come arma durante la Guerra Fredda. Questa ricerca è stata intrapresa con il supporto del programma Marie Skłodowska-Curie che, come afferma Papaeti, le ha dato il tempo di consultare archivi, giornali e materiale propagandistico, e di parlare con ex prigionieri politici. «Dato che la musica non veniva presa in esame, abbiamo dovuto scavare molto per raccogliere queste informazioni», afferma. Come passo successivo, Papaeti ha in mente di scrivere un libro sullo sviluppo della musica come strumento di oppressione in Grecia durante la Guerra Fredda e sui complessi rapporti che le vittime hanno con essa, per dare un senso a questo trauma e offrire una testimonianza della violenza nella storia europea.
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