Cosa determina il successo di una «invasione»?
Secondo il rapporto del 2023 sulle specie esotiche invasive del Programma Ambientale delle Nazioni Unite, le attività umane sono responsabili dell’introduzione di oltre 37 000 specie aliene in regioni non autoctone. Questo non solo ha modificato drasticamente gli ecosistemi, ma costa all’economia globale più di 400 miliardi di euro all’anno. È fondamentale comprendere i meccanismi di adattamento che fanno sì che una specie introdotta diventi un «invasore» di successo o che perisca nel processo. Con il sostegno del programma di azioni Marie Skłodowska-Curie (MSCA), il progetto INVASOMICS ha combinato il lavoro sul campo con esperimenti di laboratorio per esplorare il ruolo della plasticità adattativa nell’aiutare le specie invasive a sopravvivere e prosperare.
Preadattamento e selezione del trasporto nelle specie invasive
«I sopravvissuti a pressioni causate dall’uomo, come livelli molto elevati di azoto (eutrofizzazione) nei loro ambienti nativi o condizioni di trasporto molto dure, tra cui ipossia e/o prodotti di escrezione, possono avere un vantaggio unico in nuove regioni con condizioni simili», affermano il coordinatore di INVASOMICS Jonas Jourdan e il borsista MSCA Oriol Cano Rocabayera della Università Goethe di Francoforte. INVASOMICS ha scelto due sistemi modello per studiare questo preadattamento e la selezione del trasporto. La prima è il pesce gambusia orientale (Gambusia holbrooki). Spediti dalla Carolina del Nord alla Spagna nel 1921 per combattere la malaria, i pochissimi esemplari sopravvissuti sono stati liberati in Estremadura (Spagna) e hanno colonizzato le acque adiacenti. Questa specie ittica invasiva originaria degli Stati Uniti è ora presente nelle acque dall’Europa alla Palestina e alla Russia. Il progetto ha studiato nove popolazioni di gambusia orientale provenienti da tre territori: invasive (Estremadura), autoctone (Florida) e parenti autoctone di popolazioni invasive europee (Carolina del Nord). Il secondo sistema modello di INVASOMICS è stato quello dei gammaridi (crostacei anfipodi). Spesso raggiungono nuovi ambienti nelle acque di zavorra delle navi, riuscendo a prosperare meglio delle popolazioni autoctone per affermarsi con successo. Tre specie di gammaridi con diverso stato di conservazione provenienti dal bacino idrografico del fiume Meno (Assia, Germania) sono state aggiunte allo studio per consentire l’indagine delle diverse tolleranze specifiche delle specie all’inquinamento da nitriti.
Esperimenti di «laboratorio» naturale e di laboratorio controllato
Le gambusie orientali e i gammaridi catturati in natura sono stati esposti a livelli realistici e non letali di nitrito, un composto altamente tossico presente in natura nel ciclo dell’azoto i cui livelli sono aumentati enormemente a causa dell’attività agricola. «INVASOMICS ha combinato il realismo dell’utilizzo di individui catturati in natura con i vantaggi della verifica di ipotesi in esperimenti di laboratorio controllati. È stato emozionante trovare i siti appropriati, raccogliere gli animali selvatici vivi e condurre i test di esposizione, oltre a sfruttare tecniche analitiche avanzate come il sequenziamento dell’RNA e il tracciamento dei movimenti», spiega Cano Rocabayera.
La complessità nell’analisi delle caratteristiche delle specie invasive è molto elevata
È stato difficile confermare se le gambusie orientali invasive siano più tolleranti all’eutrofizzazione, dati gli effetti subletali simili in tutte le nove popolazioni di questi pesci. Tuttavia, il fatto di vivere in un ambiente inquinato era un elemento di differenziazione. «Tre geni selezionati sono stati espressi in modo differenziato nei pesci provenienti da siti inquinati rispetto a quelli “puliti”, forse a indicare adattamenti recenti all’inquinamento cronico da azoto», osserva Cano Rocabayera. «Fattori come le uova e gli embrioni più piccoli ma più abbondanti nelle popolazioni progenitrici e invasive potrebbero anche favorire una rapida colonizzazione di un habitat appena invaso», aggiunge. I gammaridi, invece, erano una storia diversa. Il gammaride non autoctono Gammarus roeselii è risultato altamente tollerante all’inquinamento da azoto: si tratta della prima prova empirica che la maggiore tolleranza delle specie non autoctone può favorire la colonizzazione. Inoltre, la specie che abitualmente abita le aree più incontaminate è risultata particolarmente vulnerabile. «Questo dato è allarmante e ci mostra quali acque dovrebbero essere prioritarie per le misure di conservazione», sottolinea Jourdan. «Viviamo in un’epoca di rapidi cambiamenti delle pressioni ambientali, ma abbiamo una scarsa comprensione delle loro interazioni con gli ecosistemi. La recente differenziazione tra popolazioni sottoposte a diverse pressioni eutrofizzanti gioca chiaramente un ruolo cruciale nella risposta di un organismo. I nostri sistemi modello possono aiutarci a comprendere e proteggere i nostri ecosistemi», riassume Jourdan.
Parole chiave
INVASOMICA, gambusia orientale, specie invasive, ecosistemi, inquinamento da azoto, specie aliene, eutrofizzazione, Gammaridea, gammaridi, plasticità adattativa, preadattamento, selezione del trasporto