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Dynamic Earth Evolution and Paleogeography through Tomographic Imaging of the Mantle

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Conciliare geologia e geofisica della subduzione oceanica

I fondali marini forniscono indizi sulle profondità della Terra, ma i geologi e i geofisici li interpretano spesso in modo differente. Mediante una rivalutazione dei dati osservazionali a livello globale, DEEP TIME concilia le registrazioni superficiali e sub-superficiali della subduzione oceanica.

Il fondale marino offre informazioni preziose sul motore interno della Terra, in cui la convezione del mantello converte il calore in movimento. Il materiale presente nel mantello si stacca a causa della tettonica delle placche per poi essere restituito attraverso il processo della subduzione, nel quale le placche della crosta terrestre si scontrano l’una con l’altra. «Il fondale marino è da sempre soggetto a una costante ristrutturazione. Siamo a conoscenza del modo in cui i continenti si sono formati in seguito alla separazione da Pangea, l’enorme massa continentale primordiale, all’incirca 250 milioni di anni fa, ma per i due terzi della superficie in precedenza oceanica la storia è ancora da scrivere», spiega Karin Sigloch, coordinatrice di DEEP TIME e ricercatrice attiva presso il Centro nazionale francese per la ricerca scientifica, l’organizzazione che ha ospitato il progetto. Il problema deriva dal fatto che la subduzione ha cancellato tutte le registrazioni superficiali del fondale marino. DEEP TIME, finanziato dal Consiglio europeo della ricerca, ha contribuito a ricostruire la struttura paleolitica del fondale marino grazie alla rivelazione di come i continenti e i margini di placca si sono evoluti, riprendendo un’ipotesi controversa secondo cui il mantello si comporterebbe in modo sufficientemente uniforme da essere prevedibile, consentendo una modellizzazione di tipo «hindcast» (cioè simulazioni riferite a periodi passati). Fondamentale a tal fine è stata l’analisi delle «lastre», ovvero placche in origine oceaniche reimmesse nel mantello che si deformano mentre sprofondano verso il nucleo della Terra. Tali formazioni rispecchiano gli ambienti in cui sono state «scolpite», offrendo informazioni sull’influenza esercitata dalle fosse oceaniche, dai movimenti delle placche e dalle dinamiche del mantello. Generando immagini tomografiche più nitide della parte inferiore del mantello, DEEP TIME ha migliorato l’inventario dei residui lasciati dalla subduzione, trovando difetti nelle interpretazioni delle precedenti immagini più sfocate.

Introdurre la «tomotettonica»

DEEP TIME ha rivisitato un’ipotesi ripudiata secondo cui le lastre sarebbero affondate nelle fosse oceaniche e rimaste immobili per decine di milioni di anni. Ultimamente è cresciuto il consenso rispetto al fatto che la geologia del mantello e quella relativa alla subduzione devono essere più complesse e varie di quanto emerge da tale ipotesi. «Abbiamo proposto l’idea di un pianeta più semplice e più uniforme, mettendo in relazione la superficie e il sottosuolo attraverso l’impiego di un approccio che chiamiamo “tomotettonica”», aggiunge Sigloch. Rivalutando i dati di tomografia sismica relativi alla subduzione fino a una profondità di circa 2 000 km in un periodo risalente a 200 milioni di anni fa, il team non ha potuto rifiutare l’ipotesi secondo cui lastre massicce e ispessite sarebbero semplicemente sprofondate assestandosi nel mantello, non perdendo più la propria stabilità. «Questa è una teoria soddisfacente in quanto rappresenta ciò che la geofisica aveva previsto prima che venissero proposte interpretazioni più complicate e recenti delle osservazioni», osserva Sigloch. Secondo quanto suggerito dal team, inoltre, le zone di subduzione avrebbero per lo più origine all’interno dei bacini oceanici, restando stabili sino a quando vengono raggiunte da un continente alla deriva. Tali collisioni aggiungono materiali bentonici al margine continentale, distruggendo la zona di subduzione o facendola diventare una fossa a stretto contatto con il margine. «Fornire indizi sulla dinamica dei continenti attualmente in espansione è gratificante», afferma Sigloch. «La maggior parte delle zone di subduzione studiate dai geologi si trova sulle fasce costiere continentali. In generale viene sottovalutata la teoria secondo cui, in precedenza, esse sarebbero state delle fosse in mare aperto.» Il team ha inoltre scoperto che le lastre hanno una «memoria» più lunga di quanto si riteneva in passato, che forse arriva a 300 milioni di anni fa.

Non più oceani a sé stanti

Un risultato stuzzicante del lavoro di rivalutazione dei dati paleogeografici eseguito da DEEP TIME è l’indicazione della presenza di un «ulteriore oceano» a ovest delle Americhe, durante l’era dei dinosauri. Ciò era stato in precedenza ipotizzato, ma successivamente respinto in quanto i suoi confini occidentali non comprendevano alcun grande continente, ma piuttosto fosse che ospitavano microcontinenti. «Si tratta di una revisione di notevole importanza. Questo bacino oceanico avrebbe plasmato il clima comportando una diversificazione delle specie, per non menzionare la generazione delle risorse naturali che diede origine alla prima economia americana, ad esempio con la corsa all’oro!», dichiara Sigloch. In definitiva, il lavoro svolto da DEEP TIME ha spostato gli interrogativi in merito alla complessità dal sottosuolo profondo a una zona più superficiale. «Sebbene il comportamento del mantello sia relativamente semplice, le geometrie superficiali delle fosse diventano complesse, il che rende difficile dedurre i dettagli del passato a partire solamente dalla superficie. Ma la storia profonda viene chiaramente custodita nel mantello. Unendo entrambi i fattori, il nostro lavoro può contribuire alle operazioni di hindcast», conclude Sigloch.

Parole chiave

DEEP TIME, subduzione, Pangea, fondale marino, continente, oceano, mantello, tettonica delle placche, tomografia, hindcast

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